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Paolo Assandri
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Nessuno è la versione definitiva di se stesso

Non ricordo esattamente la prima volta in cui mi domandai “Chi sono io?”, ma sono sicuro che questa domanda si presentò chiaramente alla mia consapevolezza quando mi chiesero quale percorso di studio volessi intraprendere dopo le scuole medie. 

I miei insegnanti continuavano a darmi consigli benintenzionati e spesso contraddittori, ma io avevo l’impressione che nessuno di quei suggerimenti mi si addicesse davvero. Sentivo che c’era qualcosa di me che mi sfuggiva e che non poteva essere definito da nessuna di quelle opzioni. Iniziò così la mia vera ricerca: quella di me stesso

Ma quando iniziai a chiedermi chi sono, rimasi deluso dalla difficoltà di trovare una risposta univoca e rassicurante. Al contrario, iniziarono a presentarsi domande ancora più articolate:  “Che cosa mi definisce?”,  “Sono il mio corpo?”, “Sono i miei pensieri?”, “Sono le mie emozioni?”, “Sono quello che penso di essere?”, “ Sono quello che altri pensano di me?. Queste domande mi aiutarono sicuramente ad approfondire la mia ricerca, ma furono soprattutto alcune idee che appresi ed elaborai durante il mio cammino esistenziale che mi aiutarono ad entrare in un contatto più sincero ed onesto con me stesso. Per questo motivo voglio condividerle con voi.

1. Nessuno è la versione definitiva di se stesso.

Nonostante tendiamo a percepirci come individui che non cambiano facilmente, siamo tutti impegnati in un processo di cambiamento costante. Le nostre esperienze, quelle scelte o quelle subite, ciò che impariamo, la qualità delle nostre relazioni, le idee che elaboriamo o che decidiamo di abbracciare, l’ambiente in cui viviamo, sono solo alcune delle cose che possono cambiarci, anche in modo sostanziale. Questo succede perché il nostro sistema nervoso è plastico e si adatta in modo funzionale alla nostra vita (e per vita intendo tutto ciò che succede fuori e dentro noi stessi). Per cui, volenti o nolenti, tutti cambiamo, così come cambiano le situazioni e le relazioni che cerchiamo disperatamente di mantenere intatte. Siamo tutti inseriti in un flusso di cambiamento continuo: cresciamo, invecchiamo, cambiamo idee, proviamo emozioni e sentimenti diversi e contraddittori, ci innamoriamo (e ci disinnamoriamo), creiamo (e distruggiamo), e così via.

Questo mi fa ricordare il concetto buddista di impermanenza. Secondo questo concetto, nulla è immutabile e tutto è passeggero. Questa idea ci invita ad accogliere noi stessi e ciò che ci circonda in modo non giudicante, e di osservare con curiosità (e rispetto) il continuo cambiamento che avviene dentro e intorno a noi. Secondo il buddismo, infatti, il cambiamento è l’unica certezza. Per questo motivo, ascolto sempre con molto interesse, e con un pochino di diffidenza, le persone che si descrivono usando frequentemente le parole “Mai” e “Sempre”. “Mai” e “Sempre” sono la premessa per la creazione di una realtà illusoria che poco si adatta a come procede la vita.

2. Non siamo (solo) il modo in cui ci definiamo.

Siamo tutti cantastorie. Attraverso le nostre storie, soddisfiamo i nostri bisogni di esseri umani. Diamo così un senso alle nostre esperienze, troviamo rassicurazione e creiamo prevedibilità in un mondo che è incerto e mutevole. Per fare questo, però, tendiamo a descriverci in modo parziale, distorto e irrispettoso della ricchezza del nostro mondo interiore. Da una parte questo ci permette di soddisfare illusoriamente il nostro bisogno di stabilità e di prevedibilità. Dall’altra, così facendo, creiamo una caricatura di noi stessi alla quale possiamo affezionarci così intensamente, da perdere di vista alcuni aspetti di noi. Ad esempio, chi si descrive come pauroso e incerto, può permettersi di sperimentare e di rivelare il proprio coraggio senza provare la sensazione che ci sia qualcosa di strano o di inaccettabile? Oppure, chi si definisce come forte e sicuro, può autorizzarsi a mostrare la propria fragilità e la propria tenerezza senza avvertire che qualcosa è sbagliato? Il mio invito è quello di stare attenti a come ci definiamo perché potrebbe diventare una vera e propria prigione esistenziale.

3. Non siamo (solo) il modo in cui ci definiscono gli altri.

Il modo in cui ci descrivono gli altri possono diventare delle profezie che si auto-avverano, soprattutto nel momento in cui decidiamo di credere a questa descrizione (specialmente quando questa è l’unica versione della realtà che abbiamo a disposizione). Perciò, tendiamo a comportarci nel modo in cui le persone significative della nostra vita ci percepiscono e parlano di noi. In questo modo, soddisfiamo il loro (e il nostro) bisogno di stabilità, di coerenza e di prevedibilità, ma ci priviamo della possibilità di fare esperienza di altri nostri aspettii che non vengono contemplati nelle descrizioni che gli altri danno di noi. Ad esempio, se un individuo venisse descritto come privo di creatività, potrebbe tenersi lontano da tutte le attività creative o artistiche, privandosi così della possibilità di esprimere un talento artistico latente. Quindi, è importante prendere in considerazione che il modo in cui gli altri ci descrivono può essere parziale o distorto. A volte, può essere addirittura fuorviante o disonesto.

4. Abbiamo bisogno di relazioni accoglienti per mostrarci. 

Una delle condizioni necessarie affinché una persona possa mostrarsi in modo sincero, genuino e spontaneo,  è  quella di entrare in relazione con un altro essere umano che abbia un atteggiamento di apertura e che non sia giudicante. Tutti noi sappiamo bene che in presenza di alcune persone ci sentiamo (o ci siamo sentiti) più spontanei e più liberi di esprimerci in modo naturale. In genere queste persone sono meno predisposte al giudizio e più inclini ad accoglierci con benevolenza. Mi piace pensare che la nostra anima è timida e che, proprio per questo motivo, ha bisogno di sentirsi protetta e al sicuro per mostrarsi.

5. C'è sempre qualcosa in noi che le parole non sono in grado di descrivere. 

Esistono aspetti di noi che non siamo in grado di esprimere facilmente, aspetti che neanche siamo consapevoli di possedere. Questo perché la nostra educazione, la nostra comunità o le relazioni importanti della nostra vita possono averci insegnato che, per essere accettati, non dobbiamo mostrare alcune delle nostre caratteristiche. E più gli attributi che nascondiamo sono “strutturali”, più avvertiamo un generico senso di malessere, al quale non riusciamo a dare un nome. Infatti, nonostante il nostro tentativo  di occultarli, questi aspetti possono bussare alla nostra coscienza, cercando di “farsi vedere” nei modi più disparati, spesso attraverso un senso di insoddisfazione, di sofferenza o di annichilimento. Questi aspetti rappresentano il nostro potenziale, quel futuro possibile che sembra non poter essere descritto attraverso le parole. Ma quando ci diamo il permesso di vedere questi aspetti, o semplicemente ci autorizziamo a pensarli come possibili, le parole trovano un modo di rappresentarli. Così, diventano pezzi di un puzzle che possono incastrarsi con i pezzi precedenti (quelli che sapevamo di possedere), consentendoci così di scorgere un’immagine inedita di noi stessi, un'immagine che prima non eravamo in grado di vedere.

Nel tentativo di dare una definizione di noi stessi, dobbiamo prendere in considerazione che le nostre auto-descrizioni sono provvisorie e parziali. Siamo esseri che cambiano: alcuni si evolvono, altri subiscono il cambiamento, altri ancora implodono, altri invece fanno finta di non cambiare. Il modo in cui impariamo ad accogliere il cambiamento e ad integrarlo nella nostra esistenza, ci dà la possibilità di scegliere la “forma” che vogliamo prendere e ci dà l'opportunità di dare vita a quel “futuro possibile” che tutti abbiamo dentro di noi e che preme per venire alla luce.

"L'identità non può essere trovata o fabbricata, ma emerge dall'interno quando si ha il coraggio di lasciar andare."

Doug Cooper

Autore: Paolo Assandri è un Counselling Psychologist (registrato presso HCPC e British Psychological Association), uno Psychotherapist (UKCP) e uno Psicologo-Psicoterapeuta (Ordine degli Psicologi del Piemonte). Vive e lavora a Londra dove offre counselling e psicoterapia.

Nota degli Autori:
Questo articolo non si intende come sostituto di alcuna terapia medica e/o psicologica. Il suo obiettivo è quello di informare i lettori e di migliorare il senso di benessere individuale. Qualora sentiste bisogno di supporto medico e/o psicologico, rivolgetevi ad un professionista sanitario (medico, psicologo o psicoterapeuta). Gli autori, i produttori e i consulenti impegnati alla realizzazione di questo articolo non sono responsabili delle scelte  e delle azioni dei lettori avvenute dopo la lettura dell'articolo.

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